domingo, 23 de outubro de 2011

Probando a comprendermos outras linguas

Alguen comentou, e comentou moi ben, que vivimos nun continuum panrománico e que se non entendemos é polos prexuízos que nos paralizan. Velaí vai, pois, un conto en italiano para probardes. Ao comezo é un chisco difícil mais logo todo flúe moito mellor.
  Para as persoas que non puideren lelo, nuns días porei a versión en portugués, a lingua orixnal, porque o conto paga a pena.


Discorso sul fulgore della lingua

José Eduardo Agualusa





Il vecchio Firmino ci girava vagamente, sempre assorto, traviato, fischiettando nell’aria inzuppata delle misteriose litanie. Lo vedevo scendere le scale mentre inciampava sulle alliterazioni:





E fria, fluente, frouxa claridade

Flutua como as brumas de um letargo.





Una specie di oscurità usciva da lui, come da un abisso, mentre declamava Cruz e Sousa:





Vozes veladas, veludosas vozes,

Volúpias dos violoes, vozes veladas

Vagam nos velhos vórtrices velozes

Dos ventos, vivas, vãs, vulcanizadas.





Fernando Pessoa, questi, lo amava con un fervore ancor più grande. Lui e tutta la sua legione di eteronimi. Li pregava:





Mas em torno à tarde se entorna

A atordoar o ar que arde

Que a eterna tarde já não torna!

E em tom de atoarda todo o alarde

Do adornado ardor trastorna

No ar de torpor da tarda tarde.





Io mi lasciavo affondare “nell’aria del tardo pomeriggio”. Mi stendevo su una delle reti e subito cadevo in un sonno rapido, in qualche luogo ancora più a sud, tra torrenti d’acqua fresca, sotto un cielo nudo e metalico, in qualche spiaggia di velluto rinfrescata dalla brezza salata dell mare. Mi svegliano alcuni minuti dopo, fradicio di sudore, pazzo di sete, soffocato da quell’aria di acari. Uscivo dalla porta inciampando, attraversavo la strada e tramortivo bocconi sul bancone del bar lì davanti, implorando per amor di Dio una birra stupidamente ghiacciata.





Ero arrivato là come un naufrago, con lo zaino sulle spalle, e subito mi aveva affascinato l’improbabile alfarrabista, o sebo, nome più comune in Brasile, che occupava completamente i due piani di un affaticato edificio coloniale. Se io fossi un alfarrabista avrei un immenso daffare per organizzare ilo mio negozio in modo che sembrasse naturalmente disorganizzato. Un alfarrabista organizzato, metodico, mi suggerisce qualcosa di vagamente monstruoso, capace di offendere l’ordine naturalle delle cose, un po’ come una lucertola con due teste, un avvocato ingenuo, un generale pacifista. Alla maggior parte delle persone che frequentano il alfarrabista piace pensare che camminano in mezzo al caos e che nel mezzo di quel grave e silenzioso tumulto possono, improvvisamente, inciampare nella prima edizione dei Lusiadi al prezzo di un romanzo di Paulo Coelho. C’è stato un tempo romantico, in cui queste cose veramente potevano accadare. Un tempo in cui gli alfarrabistas ancora rispettavano il disordine. I nuovo professionisti di questo campo sono, disgraziatamente, molto bene informati e ancor meglio organizzati. Nel negozio del vecchio Firmino Carrapato, però, il disordine era legittimo e molto antico. Tre generazioni di Carrapato avevano contribuito con la loro lenta fatica a quello splendido caos. I libri si moltiplicavano ammucchiati al suolo o non allineati per metri e metri di incerti scaffali di alluminio, senza altra logica che non fosse quella del loro arrivo. Il vecchio Firmino aveva disposto cinque o sei retti attacate alle colonne, vicino ai larghi portoni aperti sulla strada, in modo che fosse possibile sfogliare i libri con una certa comoditá, pregando affinché la brezza del pomeriggio fosse capace di diminuire il caldo, sì, ma non suffientemente forte per transformare in irrimediabile polvere, pura polvere erudita, le carte antiche.

Io a Firmino gli piacevo. Gli suonò strano, all’inizio, il mio accento –da dove venivo? Dall’Angola?!- mi aveva guardato perplesso:



“In Africa?! E lì si parla portoghese?...”



Gli dissi sì, che parlavamo portoghese, così come molta gente in Mozambico, a Capo Verde, in Guinea Bissau, a Sao Tomé e Príncipe, a Timor e, chiaro, in Portogallo.



“No, questo no”, contestò il vecchio, “in Portogallo no. I portoghesi non parlano più portoghese”.



“In realtà”, aggiunse, “non si può neanche dire che parlano, questo fatto manca di dimostrazione”. Aveva visto, alcuni mesi prima, un film portoghese e non aveva capito una sola parola. Gli attori emettevano un vago mormorio, a bocca chiusa, come dei ventriloqui, con la differenza che i buoni ventriloqui parlano dall’ombelico proprio o altrui, parlano dai gomiti, parlano addriritura dalla bocca chiusa di un portoghese, e sempre con una relativa chiarezza. Argomentai, già un po’irritato, che la cosa era da addebitare alla quarente qualità tecnica del suono nei film portoghesi, come anche, è sicuro, alla cattiva dizione di alcuni degli attori, e poi ammisi che, in effetti, i film portoghesi dovevano essere mostrati con i sottotitolo non solo in Brasile, ma anche in Portogallo. Eravamo in questa discussione quando, sereno come un miracolo, entrò nel negozio un portoghese. Era un uomo mingherlino, ma al contempo solido e elegante, con il cranio rasato, una barbetta rada, ben disegnata, degli occhiali rotondi, d’argento, che dovevano esser l’erdità di un qualche antenato.



“Buon pomeriggio! Posso entrare?”



Anche lui parlava senza aprire la boca, ma sembrava simpatico, cosicché lo chiamai, gli presentai l’alfarrabista, e in poche parole lo misi al corrente della nostre discussione. Un piccolo lampo illuminò gli acchiali del portoghese e questi sorrise. La questione gli ricordava una tesi sostenuta da Agostinho da Silva. Forse la tesi di Agostinho ci sembrava un po’ bizzarra e senza supporto scientifico –ma era poetica. Disse ciò e si fece molto serio:



“La poesia ci azzecca più della scienza. In natura, per esempio, la bellezza è utilitarista, cioè, non esiste nell’universo fulgore senza utilità. Se gli scienziati andassero in cerca della belleza invece che della funzionalità arriverebbero più in fretta alla funzionalità”.



Secondo Agostinho da Silva, le lingue si affezionano alle geografie che colonizzano. In un orizonte ampio, disteso, l’accento è più aperto e in un paesaggio chiuso tende a chiuderse. Così, in Brasile, in Angola o in Mozambico le persone parlano la nostra lingua aprendo più le vocali, e alle Azzorre, a Madeira, nell Portogallo continentale, ma anche a Capo Verde, le chiudono.

Fu così, attraverso la ppesia, che il portoghese conquistò l’arduo cuore di Firmino Carrapato. Quel pomeriggio grufolò tranquillamente per i saloni, senza fretta, non esitando a disfare e rifare le pile polverose. Quando la luce già iniziava a declinare chiamò il vecchio. Firmino studiò lentamente i libri scelti dal portoghese. Leggeva il titolo ad alta voce, vedeva lo stato della costina, li soppesava. Uno dei essi, un grosso volume riccamenti rilegato sembrò intrigarlo:



“Discurso sobre o Fulgor da Língua? È stato un dottore di queste parti, del Maranhão, a scriverlo, ma non l’ha letto mai nessuno. È sicuro che lo vuole?”



Il portoghese annuì con la testa. Ilo vecchio mormorò qualcosa (mi sembrò di riconoscere un verso di Pessoa) e poi si strinse nelle spalle:



“Va bene, questo glielo regalo…”.



Una settimana dopo incontrai il portoghese in un bar di rastafariani. Era feloce come un fiume. Prima che gli domandassi qualsiasi cosa mi Mostrò una lettera:



“Chi troverà questo biglietto voglia cortesemente rivolgersi al mio avvocato, a São Luís do Maranhão, con la copia del libro in cui l’ha trovato”. Poi c’era il nome e l’indirizzo dell’avvocato.



Il portoghese sorrise:



“Non ci crederà: ho ereditato un intero isolato ad Alcântara!”



Il biglietto era stato scritto dall’autore del grosso volume che il vecchio Firmino gli aveva regalato. Il disgraziato era morto anni fa, deluso dall’indiferenza del mondo, ma non senza prima aver redatto un testamento in cui donava il palazzo di familia a chiunque avesse provato di aver comprato e letto il suo unico libro. Il portoghese esultò:



“E, sa una cosa? Il libro non è male”.








5 comentários:

  1. Non estou certo de que sexa así, pero voume lanzar...

    Polo que entendín, a historia desenrolase nunha librería de "reliquias" (non sei se existe a palabra alfarrabista en galego realmente, non sei ben como explícalo) onde se atopan persoas de distintas nacionalidades.

    O que eu entendo do texto é que non se comprenden a perfección, ata que dúas persoas (portuguesa e angolana) comproban que comprenden a escrita, xa que as dúas falan a mesma lingua, o portugues, sendo os acentos ou a forma de falar o que dificultaba a comprensión entre as persoas.

    Falan dun libro sobre a lingua e sobre o autor que apenas vendeu un libro e ¿¿deixou toda a súa herencia o comprador?? Resultando finalmente que o libro era bo.

    Como dicía, non estou seguro de comprender nada, pero penso que por ahí van os tiros... Espero a versión en portugues.

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  2. Eu opino da mesma maneira que Pablo. O texto fai referencia as diferentes formas de falar unha lingua. Un dos personaxes no texto ofrece a explicación de que estas diferenzas dentro dunha mesma lingua débense ás diferenzas existentes no entorno no que se fala, como se di no texto “le lingue si affezionano alle geografie che colonizzano”. E dicir, a lingua terá unha pronunciación aberta se a paisaxe é tamén aberta e cerrada se non o é, como se di no texto “In un orizonte ampio, disteso, l’accento è più aperto e in un paesaggio chiuso tende a chiuderse”. No texto indicase que esta relación descubrese máis doadamente mediante a poesía ca atraveso da ciencia, xa que a poesía pode comparar a lingua coa beleza que se presenta na natureza, que nunca e gratuíta e polo tanto sempre ten unha funcionalidade mesmo se esta nos é escura, polo que se establece a comparación da lingua como unha marabilla da natureza que non só resplandece pola súa fermosura se non que posúe un importante papel, como se di no texto “La poesia ci azzecca più della scienza. In natura, per esempio, la bellezza è utilitarista, cioè, non esiste nell’universo fulgore senza utilità. Se gli scienziati andassero in cerca della belleza invece che della funzionalità arriverebbero più in fretta alla funzionalità”. Polo tanto a lingua parece ser un “fulgore” da natureza que plasma a diversidade social que ha usa amosando unha rica variedade que non é incomprensible éntrela.
    Por certo, parece ser que o portugués do texto encontrou unha carta dentro do libro que lle outorgaba o portador o inmoble do autor do libro se demostraba telo comprado e lido e o parecer o autor era ademais de xeneroso bo escritor.

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  3. Dúas leccións ofrece este relato:

    - A xeografía tamén fai a lingua, é dicir, que a realidade é un compoñente esencial da fala

    - Detrás do inusual, do diferente, pode haber algo inesperado. Ligada a esta idea séguelle a de facer as cousas guiados polo noso propio criterio e non polo da maioría.

    Aínda que estea escrito en italiano enténdese sen maiores problemas cun pequeno esforzo(quizais isa é a terceira lección).

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  4. Eu estou da acordo na afirmación de que vivimos nun continuum panrománico é vouvos deixar unha canción dun grupo da Coruña que son amigos meu e fan unha canción ben curiosa usando unha diversidade de línguas. Espero que gosten: http://www.youtube.com/watch?v=il38hSR37Xo

    P.D. Por certo, eu gostei ben do conto e estou dacordo cos pontos oferecidos enriba por Jose. Engadiría a maiores que quase todas las línguas románicas en u n breve espazo de tempo poderíanse ter aprehendido sen maiores dificuldades.

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  5. Eu xa comentei na versión orixinal, mais gustaríame engadir nesta entrada, que sí que é certo que ca nosa lingua podemos ir a outras alleas, como ben pode ser o italiano; mesmo este verán visitei algunhas cidades italianas e puiden desenvolverme perfectamente en galego. Desde logo sempre que pedín un xeado mo deron sen vacilacións.

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